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Kurdistan – Brescia | Urla di vita e arte dalle carceri turche

Zehra Doğan | Urla di vita e arte dalle carceri turche

10 Nov 2019

Di MARCO BRUNA –  Corriere della Sera

L’artista curda Zehra Doğan, condannata per «propaganda terroristica», espone per la prima volta in Italia, a Brescia. Ha realizzato i suoi lavori in prigione con materiali di fortuna. «Le mie opere sono un archivio di memoria»

L’opera di Zehra Dogan è un grido che nasconde l’ansia e la lotta per la sopravvivenza. Durante i 1.022 giorni di detenzione in tre carceri turche — Mardin, Diyarbakir e nella prigione di massima sicurezza di Tarso — l’artista e giornalista curda (Diyarbakir, Turchia, 1989) ha sfruttato qualsiasi mezzo pur di dare sfogo alla creatività: sangue mestruale, succo di rucola, buccia di melograno, candeggina, cenere di sigarette…

Ne è nato un corpus che dal 16 novembre sarà al centro della mostra Avremo anche giorni migliori. Zehra Dogan. Opere dalle carceri turche, in programma al Museo di Santa Giulia di Brescia con la curatela di Elettra Stamboulis (inaugura venerdì 15 alle 19). In mostra sessanta opere inedite tra disegni, dipinti e lavori a tecnica mista.

Zehra Doğan — autrice della copertina de «la Lettura» #414 dello scorso 3 novembre —, è stata arrestata il 21 luglio 2016. È stata condannata per «propaganda terroristica» dopo aver pubblicato, attraverso l’agenzia di stampa Jinha, da lei cofondata nel 2010 e poi chiusa con decreto governativo nel 2016, una lettera che le aveva inviato Elif Akboga, una bambina curda di dieci anni. La lettera raccontava l’assedio turco della città di Nusaybin, in cui sono morti centinaia di civili. Il secondo capo d’accusa era la condivisione, sul profilo Twitter di Zehra Doğan, di un’opera da lei realizzata con uno smartphone, ispirata a una foto scattata da un soldato turco. L’immagine mostra le macerie di Nusaybin, con i blindati di Erdogan trasformati dall’artista in scorpioni, simbolo di morte e distruzione.

In occasione dell’apertura della mostra «la Lettura» ha intervistato via email Zehra Doğan, protagonista il 23 novembre a Brescia di un incontro pubblico.

Pensa che l’arte sia una risposta «politica» al mondo in cui viviamo?
«La vita stessa è un atto politico. E la mia arte è senza dubbio una risposta politica al mondo in cui viviamo. È una delle risposte migliori che potessi dare».

Che cosa la spinge a fare arte?
«La mia ispirazione è il Medio Oriente, in particolare la mia terra, il Kurdistan. Le opere che realizzo riflettono la cultura, la lingua e le leggende curde. Riflettono tutto ciò che ha a che fare con la storia del mio popolo e con le sue radici. Penso che la mia produzione sia una reazione, per me inevitabile, alla realtà in cui vivo».

Qual è il valore civile, oltre che artistico, delle sue opere?
«Gran parte dei miei lavori costituiscono quello che chiamo un “archivio storico”. Si tratta di opere che fissano le testimonianze del presente in una memoria collettiva. Per me, il valore “storico” di ciò che creo è molto importante, ancora più di quello artistico».

Banksy le ha dedicato un’opera a New York. La solidarietà tra artisti l’ha aiutata a resistere?
«Quando mi hanno condannata per il disegno di Nusaybin ho avuto la sensazione che coloro che parlavano la mia stessa lingua non mi comprendessero, che ci eravamo trasformati in esseri incapaci di pensare e comprendersi. Mentre sei in prigione, tormentata da queste riflessioni, all’improvviso ti accorgi che alcune persone, a migliaia di chilometri di distanza, ti sono vicine. Banksy mi ha ritratta dietro le sbarre in una città come New York e — cosa ancora più straordinaria —, ha proiettato un’immagine enorme del disegno che avevo fatto di Nusaybin. In quel momento i muri, il filo spinato, le guardie, la prigione intera, non hanno più senso. E ritrovo tutta la forza per continuare a resistere».

Come ha reagito quando le hanno detto che sarebbe andata in carcere per aver postato un disegno?
«Sui social network avevo visto una foto di Nusaybin distrutta dall’esercito turco. Era un’immagine celebrativa. I soldati avevano appeso le bandiere turche, come trofei, alle case distrutte. Quella foto mi ha colpito molto, e ho voluto riprodurla a modo mio. Non mi ha sorpreso scoprire che quel disegno è stato usato come atto d’accusa. Le persone che vengono prese di mira, che siano giornalisti, artisti, intellettuali o altri cittadini, vengono accusate per ciò che condividono sui social perché non esistono “prove” più consistenti. Il tribunale mi ha condannata con questa motivazione: “Zehra Dogan è un’artista, ma ha oltrepassato i limiti della critica”. Così oggi prendiamo atto che i tribunali turchi sono anche le autorità incaricate di stabilire i canoni della critica d’arte…».

Ci può raccontare la sua esperienza in carcere?
«In prigione ho incontrato donne di ogni estrazione: braccianti, giornaliste, insegnanti, parlamentari, sindache, studentesse, scrittrici… Una comunità unita da una forte solidarietà. Mettere in comune le nostre conoscenze ci ha arricchito e ci ha dato forza. Ci chiediamo perché ci sbattano in prigione, se poi ne usciamo ancora più forti».

Come faceva a realizzare le sue opere durante la detenzione?
«Nella prigione di Mardin, dove mi hanno rinchiusa per la prima volta nel 2016, i reclusi avevano a disposizione materiale per disegnare. Lì abbiamo dato vita a un giornale scritto a mano, a sostegno del quotidiano “Özgür Gündem”, che, dopo essere entrato nel mirino della censura, era stato chiuso. Abbiamo trovato il modo per fare uscire il giornale dalla prigione … L’ amministrazione era furiosa, ma siamo riuscite persino a realizzarne un secondo numero! Quandomi hanno trasferita a Diy arbaki rho avvertito sin dall’inizio un bisogno irresistibile di disegnare, anche se in quella prigione non c’era il materiale adatto. Tuttavia, molto presto, ho scoperto di avere a portata di mano tutto ciò di cui avevo bisogno. Mi sono servita di carta da lettere, pagine di giornali, scatoloni, tessuti e lenzuola. Ho costruito i pennelli con piume di piccione o con i capelli delle mie amiche. Insieme a loro ho realizzato anche opere collettive».

Come giudica la crisi attuale e l’atteggiamento turco nei confronti dei curdi?
«La logica dello Stato-nazione i mplica sempre la distruzione di altre etnie, insieme alla diffusione di teorie monistiche, alla negazione delle “differenze” e al controllo demografico del luogo che viene invaso. È questa la logica con cui la Turchia porta avanti la sua politica, già dai tempi dell’Impero ottomano. Nel Rojava (l’amministrazione autonoma della Siria del Nord Est, non riconosciuta dal governo siriano, ndr), con il motto “Se ci lasciate in pace, costruiremo questo mondo”, i curdi hanno dimostrato che la vita democratica è possibile anche in una regione del Medio Oriente in cui continua a scorrere il sangue. I curdi vogliono far conoscere la bellezza delle terre del Medio Oriente e il patrimonio storico dei popoli che le abitano. Questo è ciò che infastidisce la Turchia e tante altre potenze. Per gli Stati che dominano il Medio Oriente è un’area che si presta ai loro giochi di guerra. Il popolo del Rojava è in grave pericolo: centinaia di persone sono state uccise dai bombardamenti, un massacro che non risparmia i bambini. Oggi, nel Rojava, la popolazione continua a subire gli attacchi dell’esercito turco occupante. Restare in silenzio e non reagire di fronte a quello che sta succedendo significa arrendersi alla perdita di identità, alla deculturazione, all’esilio forzato e al massacro di migliaia di persone. La popolazione del Rojava continua a resistere, ma il suo futuro sarà determinato dal sostegno dei popoli di tutto il mondo».