Allan Kaval, Le Monde, Francia
L’offensiva della Turchia nel nordest della Siria e il ritorno delle forze di Assad nell’area aprono una nuova fase del confitto. Che porterà ad altra violenza e alla fine del progetto politico del Rojava.
All’ospedale della misericordia, a Qamishli, la più grande città curda della Siria, il 13 ottobre sembra la fine del mondo. Un uomo urla di dolore, con la pelle del viso a brandelli, mentre un soccorritore gli benda la gamba e un altro, impassibile, gli scrive sul petto con un pennarello alcune istruzioni mediche. Un’infermiera di sessant’anni, con gli occhi carichi di ombretto, osserva la scena, in piedi in mezzo alla ressa. Il dottor Shamel ha del sangue sul camice verde totalmente liso. Ha appena ricucito una ferita profonda. “Trump, Macron, Johnson… Ci avete usati, ora vi sbarazzate di noi! L’unica responsabile della situazione in cui ci troviamo è questa coalizione di bugiardi”, dice in un tono furioso e disperato. Un uomo che passa nell’ingresso, con l’aria sconvolta, prende la parola: “Cosa vi abbiamo fatto, noi curdi?”. I feriti urlanti, i corpi distrutti, la disperazione che regna nel piccolo ospedale di quartiere di Qamishli sono l’eco di un massacro le cui vittime sono ancora calde. Poco fa l’artiglieria turca ha colpito un convoglio di civili, guidato dalle forze curde, che si dirigeva verso Ras al Ain, un centinaio di chilometri più a ovest, per protestare contro l’invasione compiuta dalla Turchia e dalle sue milizie islamiste. I morti sono almeno quattordici, e portano il numero delle vittime dall’inizio dell’offensiva turca, il 9 ottobre, a sessanta civili e 104 combattenti curdi, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani. Tra i feriti di questo convoglio c’è l’uomo che urla all’Ospedale della Misericordia.
Senza protezione
Fuori, la notte scura di Qamishli è attraversata da uomini armati, braci di sigaretta e rumori sinistri. Le comunicazioni sono scarse, ma si sa che l’esercito turco e i suoi mercenari avanzano nel paese, e che il confine è stato oltrepassato da tempo. In cinque giorni 160mila persone sono finite per strada. Si vedono i loro visi sudati spuntare dai cassoni di camion sovraccarichi, con le coperte a ori ammassate sul retro.
Gli schermi dei telefoni cellulari sono pieni d’immagini di esecuzioni sommarie, d’informazioni non veri ficabili, di fotografie di bambini spaventati, e anche di bambini morti. La sconfitta è arrivata in meno di una settimana. E fin dall’alba del 14 ottobre il regime sanguinario di Bashar al Assad è tornato in piena forza nel nordest siriano. La coalizione internazionale, compagna dei giorni felici, se ne va. Il 13 ottobre il presidente statunitense Donald Trump ha ordinato il ritiro di circa mille soldati statunitensi dal nord della Siria. In questi giorni si sarebbe festeggiato il quinto anniversario di un’alleanza costruita sulle rovine della resistenza di Kobane. Nel novembre del 2014 la piccola città curda alla frontiera turco-siriana, assediata dai jihadisti, aveva commosso il mondo e fatto accorrere nei suoi cieli gli aerei occidentali. L’alleanza militare nata in quell’occasione negli anni seguenti ha liberato il nordest della Siria dalla bandiera nera del gruppo Stato islamico (Is). Le Forze democratiche siriane (Fds, a maggioranza curda) hanno conquistato Raqqa, la capitale dell’Is, appena due anni dopo gli attentati di Parigi del novembre 2015, concepiti proprio in quella città. Ma il tempo delle vittorie è finito. Le milizie filoturche controllano ormai Tal Abyad e una quarantina di villaggi nella zona di confine, fino a ovest della città di Ras al Ain, che ancora non è caduta nelle loro mani. Il regime siriano si prepara a riconquistare Manbij e Kobane, alla frontiera turca, ma anche Qamishli e Al Hasaka, più a est. Le sue forze sono state dispiegate, la mattina del 14 ottobre, a Tal Tamer, venti chilometri a sud di Ras al Ain, per marciare verso la frontiera.
La morsa si è chiusa
Disperati, di fronte all’incapacità dei loro alleati occidentali di difenderli dalla Turchia, che fa parte della Nato, e dai suoi miliziani islamisti, le Fds hanno dovuto lasciare entrare l’esercito di Damasco, che non aspettava altro. La sera del 13 ottobre hanno annunciato di aver concluso un accordo con Damasco per dispiegare l’esercito siriano nel nord del paese, a sostegno delle Fds, con l’obiettivo di opporsi all’avanzata rapida delle truppe turche e dei loro alleati. Il regime di Assad ha immediatamente annunciato l’invio di truppe nel nord per “affrontare l’aggressione” turca. Alcuni sostenitori di Assad, a Qamishli e Al Hasaka, hanno accolto la notizia festeggiando. La morsa si è chiusa sui curdi siriani e suoi loro alleati nel nord del paese. Ma la guerra è finita? “Ci siamo preparati a questo giorno”, confida un’alta responsabile curda, Fawza Youssef, il 13 ottobre a Qamishli. Nel cimitero militare delle Fds sono appena state sepolte quattro vittime della guerra. Fawza Youssef piange, sola nella folla, mentre risuonano gli slogan del movimento curdo: “I martiri sono immortali!”. Youssef piange i nuovi morti, che hanno raggiunto, nelle tombe piene di fiori, i diecimila giovani uomini e donne caduti combattendo? O piange la fine di un mondo, la caduta di questo insieme d’istituzioni create pazientemente dal movimento curdo, in cui il carattere autoritario si accompagna all’ambizione di cambiare il mondo, con le comuni autonome gestite dai dirigenti del partito, la parità sessuale imposta a tutti i livelli, le grandi dimostrazioni di amicizia tra i popoli? Oppure piange l’epoca in cui le potenze del mondo corteggiavano i curdi prima di voltargli le spalle?
Le zone grigie
Poco dopo, nel suo ufficio deserto nell’ex stazione di Qamishli, Youssef è di nuovo sorridente. Crede ancora alle pressioni internazionali su Ankara, a un rovesciamento della situazione. Ma, al di là delle battute e degli occhi vivaci, la parola che pronuncia con più convinzione è “resistenza”. “È finita l’epoca della guerra in uniforme e delle sedi ufficiali. Siamo passati ormai alla modalità della guerriglia contro la Turchia”. Youssef sostiene che erano stati inviati alcuni messaggi al regime siriano, in vista di un accordo e di una risposta comune all’invasione turca, ma che non avevano avuto risposta. Poi in meno di ventiquattr’ore la situazione è cambiata. Le strade non sono più sicure, le comunicazioni sono impossibili e le informazioni rare, da un’estremità all’altra del territorio. Nelle zone grigie, in piena metastasi, si ritrovano le cellule dormienti del gruppo Stato islamico e delle milizie filoturche, che impugnano le loro armi. Nelle prigioni e nei campi, i jihadisti stranieri, europei, francesi aspettano di essere liberati dall’esercito invasore o il momento in cui il caos gli permetterà di fuggire. Ormai è troppo tardi. L’esito catastrofico che le forze curde avevano più volte prospettato agli alleati occidentali si è realizzato. Nonostante il ritorno del regime, l’Is può riprendere fiato. Una nuova era di sangue si è aperta, domenica 13 ottobre. Era cominciata la domenica precedente, con una telefonata tra Washington e Ankara.