Nelle ultime settimane, mentre gli occhi di tutto il mondo sono puntati sulla guerra russa in Ucraina, gli abitanti delle zone del Nord e dell’Est della Siria seguono solo le notizie sulle minacce del vicino di casa, la Turchia, che ogni giorno dichiara di voler intervenire, con una nuova operazione militare, nella zona controllata dalle Forze Democratiche della Siria (FDS) sotto la guida kurda dell’Unità della Protezione del Popolo (YPG).
L’obiettivo di Ankara questa volta è mirato a un’incursione nelle città di Tall Rifat e Minbij, a nord e ad est di Aleppo, a circa 20 e 30 km a sud del confine turco, secondo quanto dichiarato dal presidente turco. Le due città sono già circondate dall’esercito turco presente nelle aree sotto il controllo dell’opposizione siriana.
Infatti, l’operazione militare non sarebbe la prima, Ankara ha già effettuato quattro operazioni nel nord della Siria dal 2016, occupando centinaia di chilometri lungo il confine meridionale con il paese precipitato nel pantano della guerra civile. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha detto che l’obiettivo dell’intervento è liberare la zona dei terroristi dell’YPG.
L’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est, precedentemente conosciuta come Rojava, è nata dopo la rivoluzione siriana nel novembre del 2013. Negli anni, e durante la lotta contro l’ISIS, ha subito delle variazioni tra le diverse proposte di sistema di governo e l’attuazione di una costituzione provvisoria, fino alla dichiarazione federale del 17 marzo 2016.
In queste dimensioni politiche i kurdi hanno organizzato – e lo fanno tuttora – la propria vita quotidiana tramite una gestione locale che regola il potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Grazie a questo sistema, il percorso politico e culturale dei kurdi siriani è migliorato notevolmente. Ad esempio, per la prima volta, i bambini kurdi hanno potuto frequentare una scuola che insegna in kurdo; sono stati creati media locali (radio, TV e giornali); è stato possibile aprire centri culturali di teatro, cinema e arte. Nel 2021, per la prima volta nella storia della Siria, gli studenti kurdi hanno potuto svolgere l’esame di maturità finendo un intero ciclo scolastico nella propria madrelingua.
Da quando è nato il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) in Turchia nel 2001, che si ispira all’Islam politico e alla democrazia conservatrice, controllando la maggioranza parlamentare dal 2002, ha inserito nel programma governativo l’obiettivo di trovare una soluzione interna alla questione kurda. Questo perché la questione kurda è sempre stata complicata e spinosa fin dai primi giorni della costruzione della moderna Repubblica Turca, aggravandosi a partire dagli anni ottanta del secolo scorso.
Basta pensare infatti a come, fin dall’inizio degli anni ’90, lo stato turco abbia ufficialmente rifiutato di riconoscere l’esistenza della lingua kurda, punendo chi parlava in kurdo nella sfera pubblica e privata, e a come la politica statale di sfollamento forzato abbia portato all’evacuazione di oltre 2 milioni di kurdi dalle campagne rurali ai centri urbani.
Una politica che non ha consentito ai bambini di parlare la propria madrelingua, che ha portato le generazioni di età più avanzata a parlare tra di loro in turco – ancora oggi – costringendo inoltre molti scrittori kurdi a esprimere i propri pensieri in lingua turca, trasformando il kurdo in una lingua inferiore, tanto che ancora oggi si usa dire «ha una buona lingua» per indicare un kurdo che parla bene il turco. Senza contare che questa rigorosa politica ha causato la perdita di oltre 40.000 vite a causa del conflitto armato tra il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) e l’esercito regolare turco.
Nel suo programma l’AKP inizialmente intendeva trovare una soluzione alla questione kurda non solo in campo politico, ma anche a livello economico, sociale e culturale. E il modo più appropriato per affrontare il problema fu consentire una maggiore partecipazione politica, introducendo riforme e stabilendo le basi della democrazia nelle regioni kurde della Turchia.
Ad esempio, uno dei risultati di questa pianificazione fu la promozione da parte dell’AKP di un pluralismo culturale che comprendesse le «attività culturali in lingue diverse dal turco», considerandolo un «importante vantaggio per rafforzare l’unità» nel paese. Uno dei risultati di questa politica, poi applicata, è stata l’apertura di un nuovo canale televisivo statale, TRTKurdî, che trasmette programmi in lingua kurda dal 2009 ad oggi. Nei primi mesi del 2013 il governo turco ha avviato i colloqui di pace con Ocalan giungendo ad un cessate il fuoco con il PKK che ha portato il leader kurdo ad annunciare il 21 marzo 2013 «la fine della lotta armata». E così è iniziato in Turchia un percorso di pace.
Nel 2015 la guerra in Siria e la lotta contro lo Stato Islamico ha cambiato però le priorità della Turchia, portando alla rottura della tregua con i kurdi. E il fallito golpe militare nel 2016 ha scatenato una violenta offensiva turca, politica e militare, anche contro i kurdi in Turchia e Siria. Qualcuno ritiene che le operazioni del presidente turco siano state di pura strategia politica e di interesse per la sicurezza nazionale, ma i dati di fatto non sono questi.
La Turchia ha invaso uno stato vicino solo per una presunta ed eventualmente futura minaccia di sicurezza nazionale, considerando le forze dell’YPG un’estensione del PKK. I urdi siriani possono avere commesso errori politici o avere idee diverse nella gestione del variegato mosaico culturale siriano, ma di certo non avevano intenzione di attaccare il territorio turco.
Non vorrei apparire nostalgico oppure in preda al romanticismo, ma credo che qualsiasi sia il futuro che spetterà alla Siria, per l’esperienza kurda ci sarà almeno un riconoscimento linguistico e culturale, e se la storia nei secoli passati non l’ha ancora cancellata, di certo non verrà fatto in questo secolo in cui è riconosciuta dai colossi dell’informatica, come Google, Facebook, Microsoft ed Apple.
Cosa può fare l’Italia per i kurdi? I legami tra l’Italia e il Kurdistan risalgono al XII secolo attestando una continuità di rapporti grazie a viaggiatori, diplomatici, missionari e mercanti che attraversavano il Kurdistan per raggiungere la Persia o la Mesopotamia. È stato infatti il domenicano Maurizio Garzoni nel 1787 a redigere il primo dizionario kurdo (“Grammatica e vocabolario della lingua kurda”), venendo per questo considerato il padre della kurdologia. Poi vi furono Giuseppe Campanile con la sua “Storia della regione del Kurdistan” e Alessandro De Bianchi con “Viaggi in Armenia, Kurdistan, e Lazistan”.
Credo che l’Italia, oggi, possa fare abbastanza, mantenendo saldi i valori su cui sono nate le democrazie occidentali e i princìpi su cui è stata fondata l’Unione Europea. L’Italia può di fatto mantenere acceso il dibattito sulla questione kurda nelle proprie sedi istituzionali, a Bruxelles e ovunque possa generare una reazione politica sui valori e sui diritti dell’uomo; può agevolare la visita ufficiale degli esponenti kurdi in Italia ed Europa; può dare sempre maggior sostegno alle istituzioni kurde, dalla sanità alle università, come è stato già fatto da alcune regioni e atenei, siglando accordi bilaterali per offrire esperienze di formazione.
Nel 2004, Recep Tayyip Erdoğan durante una conferenza stampa a Bruxelles, dove si trovava per sostenere l’ingresso del suo paese nell’Unione Europea, alla domanda se fosse preoccupato di chi si opponeva al piano, così rispose: «Se l’Unione Europea ha deciso di essere un club cristiano piuttosto che uno fondato su valori condivisi è meglio che lo dica subito». Ora, la domanda sorge spontanea: di quali valori parlava il presidente turco, vista la sua politica degli ultimi anni?
Nessuna persona sana di mente può ignorare la superiorità militare di uno Stato di fronte alle risorse di una regione assediata, ma è anche vero che non è solo possedendo una superiorità militare che si giunge alla vittoria. Essere contro la politica di un partito non vuol dire essere contro un’intera regione. Conosco la storia del Kurdistan, la sua terra e la sua gente, e so che in questo momento non hanno «nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore», e aggiungo determinazione e caparbietà per la vittoria. Perché la vittoria non è sempre e solo quella militare.
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