“I Dannati di Kirkuk” di David Issamadden e Daniela De Blasio, pubblicato da Calamaro Edizioni, narra la storia di un bambino che cresce in un paese accogliente e vibrante, solo per vederlo trasformare in una prigione che incatena uomini e pensieri. Il Kurdistan diventa palcoscenico di eventi epocali, festeggiamenti gioiosi ma anche lacrime, persecuzioni e ingiustizie. Il protagonista, costretto a lasciare il paese, ritorna dopo vent’anni di esilio per scoprire una terra cambiata e irrimediabilmente perduta. Con questa storia, l’autore che ha ricoperto il ruolo di medico e direttore sanitario del Bologna FC nei ultimi anni della su permanenza nel Bologna calcio, rende omaggio alla sua famiglia e alla comunità kurda, testimoniando che la storia continua anche dopo la dittatura.
Abbiamo avuto l’opportunità di intervistare l’autore David Issamadden per discutere del suo romanzo.
Parliamo del romanzo. Come è nato e cosa racconta?
Il romanzo è un racconto autobiografico che narra la mia infanzia nel Kurdistan iracheno, precisamente a Kirkuk. Questa città è caratterizzata da una ricca diversità etnica e culturale. La mia famiglia risiedeva in un quartiere a maggioranza turcomanna per motivi legati alle attività commerciali di mio padre. A casa parlavamo kurdo e durante i mesi estivi trascorrevo del tempo con i parenti nel villaggio di Yarwali, luogo d’origine dei miei genitori.
Dopo la caduta della monarchia irachena nel 1958 e l’avvento della Repubblica, gli eventi presero una svolta drammatica. Il clima di coesione sociale e di pluralismo riconosciuto venne sostituito dall’arrivo al potere di militari nazionalisti che promossero leggi e politiche volte a riconoscere un’unica etnia nel Paese, quella araba. Questo provocò la rottura del tessuto sociale e culturale, alimentando le tensioni tra le diverse comunità, soprattutto a Kirkuk. Le discriminazioni sociali, culturali ed educative nelle scuole diventarono parte integrante dell’infanzia, vittima dei conflitti degli adulti.
Il romanzo esplora queste esperienze di crescita in un contesto così turbolento, evidenziando le trasformazioni demografiche di Kirkuk. Le politiche di arabizzazione sistematica, avviate attraverso il colpo di stato militare e accentuate durante il regime di Saddam Hussein, portarono a un drastico cambiamento nel tessuto urbano e sociale della città.
Queste politiche non risparmiarono la mia famiglia, che subì la perdita delle attività commerciali di mio padre, con lui arrestato insieme a mio fratello, e il sequestro delle nostre case e dei negozi.
Qual era la professione di suo padre?
Mio padre era un commerciante all’ingrosso, rinomato, operante in una città che all’epoca contava tra trecento e quattrocentomila abitanti. Oggi la città ha raggiunto due milioni di abitanti.
Fino a che età arriva la storia di questo bambino nel romanzo?
La storia del bambino copre fino ai sedici anni, e poi continua fino ai diciannove quando lascia il paese per venire in Italia e studiare medicina. In Iraq, all’epoca, l’accesso alla facoltà di medicina era riservato solo ai membri del partito Baath, impedendo ai kurdi di accedervi, così come ad altre facoltà come architettura e ingegneria. Sono arrivato in Italia nel 1972 e mi sono iscritto alla facoltà di medicina a Bologna nel 1973, dove da allora vivo con la mia famiglia, compresa una figlia.
E la sua famiglia a Kirkuk?
Sono tornato in Kurdistan dopo la dichiarazione della zona autonoma del Kurdistan iracheno nel 1991. Nel frattempo avevo perso entrambi i miei genitori e oggi sono l’unico maschio insieme a due sorelle sopravvissuti tra sette fratelli (quattro maschi e tre femmine).
Ha ancora legami con Kirkuk oggi?
Certamente, dal 1992 ad oggi sono tornato spesso. Insieme a molti amici italiani abbiamo fondato l’associazione Hêwa per Garmian (Speranza per Garmian) e abbiamo avviato un progetto per costruire una scuola chiamata “Casa del Fanciullo” per gli orfani di Garmian, simile all’ITIS (Istituto Tecnico Industriale) in Italia.
Parlando dell’infanzia kurda, dei figli e dei deserti iracheni dove le famiglie kurde venivano deportate durante il processo di Anfal,* mi viene in mente il romanzo di Bachtyar Ali, “L’Ultimo Melograno”, e la tragedia dei bambini di Sinjar nel 2014. È questo il destino dell’infanzia dei bambini kurdi?
Purtroppo sì, anche nel Kurdistan turco dove è stata applicata una politica di assimilazione linguistica e culturale pura.
Cosa le ricorda della sua infanzia in relazione a queste politiche?
A 12 anni, sfidavamo il governo di Baghdad. Con i ragazzi più grandi imprigionati o impegnati sulle montagne come Peshmerga a sostegno della lotta kurda, organizzavamo segretamente celebrazioni del Newroz. Portavamo legna e pneumatici sulle colline della città per accendere fuochi alla vigilia del Newroz. Poi scappavamo a casa e guardavamo i fuochi festosi dai tetti. Quando arrivava la polizia segreta, i pochi maschi rimasti sopra i 12 anni pagavano le conseguenze. Eravamo bambini di giorno, rivoluzionari di notte.
Cosa augura ai bambini kurdi in questo periodo?
Ciò che auguro, non solo ai bambini kurdi ma a tutti i bambini oppressi e minacciati, è ciò che hanno i bambini occidentali: pace, istruzione, assistenza sanitaria, dignità umana, democrazia, amore familiare e sociale.
Se dovesse consigliare a qualcuno di leggere il suo libro, per quale motivo lo suggerirebbe?
Questo libro racconta la storia di tutti i bambini che attualmente nel Medio Oriente subiscono molte ingiustizie da parte dei sistemi governativi, scolastici e socio-culturali. Attraverso la storia di questo bambino, si può comprendere meglio cosa possa provare psicologicamente un bimbo nato in quella parte del mondo in questo periodo. È una situazione che riguarda oggi i bambini israeliani e palestinesi contemporaneamente, senza dimenticare la guerra in Ucraina, dove migliaia di bambini vengono uccisi o diventano orfani, affrontando fame, freddo, abusi e soprusi da parte di chi li domina. Il libro racconta le storie e le esperienze di tanti bambini che hanno vissuto guerre, dittature e società che li hanno oppressi nonostante la loro giovane età. Questi bambini trovano la loro strada nella vita, crescendo senza la guida degli adulti.
Un’ultima domanda, il romanzo è stato curato da Daniela De Blasio. Può raccontarci qualcosa di lei?
Daniela è una cara amica che conosco da quasi quarant’anni. Ci siamo incontrati quando lei era giornalista sportiva e io ricoprivo il ruolo di medico e direttore sanitario al Bologna Football Club. Le ho raccontato la mia storia e quella del popolo kurdo, e insieme abbiamo scritto questo romanzo. Io ho fornito i racconti e lei li ha trascritti.
Molti amici, come Daniela, hanno contribuito alla causa del mio popolo. Tra di loro ci sono la giornalista Laura Schrader e l’avvocato Antonio Mumolo, con cui abbiamo costruito scuole in Kurdistan grazie al sostegno dei sindacati CGIL, CISL, UIL di Venezia e Bologna.
Di Ghiath Rammo
ISBN: 979-1281610002
Autore: David Issamadden (Autore), Daniela De Blasio (a cura di)
Collana: Narrativa
Casa Editrice: Calamaro Edizioni
Dettagli: 194 pagine, Brossura
Prezzo: 15,00€
In libreria: 11 aprile 2024
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* Il genocidio dell’Anfal in Iraq ha causato la morte di circa 182.000 kurdi durante la Campagna di Al-Anfal tra il 1986 e il 1989, condotta dall’esercito di Saddam Hussein. Paesi come Svezia, Norvegia, Corea del Sud e Regno Unito lo hanno ufficialmente riconosciuto come genocidio.