Un quarantenne regista kurdo-iraniano, apolide e diviso tra due mondi, sta lavorando a Roma a un ambizioso film sull’immigrazione prodotto dal ministero per i Beni e le Attività culturali. Durante un incontro cruciale con la commissione che eroga i finanziamenti, pronto a ridiscutere il finale della sua opera – definito oltremodo pessimista – riceve una telefonata destinata a cambiare il corso della sua già travagliata esistenza.
All’altro capo del filo c’è sua madre, che non sente da ventisette anni e che, l’ultima volta che l’ha vista, ha cercato di ucciderlo. Il ricordo del loro ultimo traumatico incontro piomba nel suo presente e lo invade. La voce della madre lo costringe a tornare nel suo Paese per fare i fatidici conti col passato prima che la morte impedisca a entrambi di ricucire quello strappo mai sanato che ha lasciato dentro di lui una cicatrice profonda e una scia di scelte sbagliate.
Ma il ritorno in Iran si rivela molto diverso da come lo aveva immaginato: invischiato suo malgrado in un mondo di cui quasi non riconosce più le dinamiche, e come sospeso in un tempo surreale, il passato torna sotto forma di condanna, di circolo vizioso, dove anche i sentimenti più puri non trovano spazio e la verità, a lungo temuta e nascosta, si palesa in tutta la sua violenza beffarda e sconvolgente.
Fariborz Kamkari
è un multipremiato regista e sceneggiatore iraniano di origine kurda attivo in Italia. Tra le sue opere: Black Tape (2002), The Forbidden Chapter (2005), I fiori di Kirkuk (2010, tratto dal suo romanzo omonimo) e Acqua e zucchero (2017). Nel 2015 ha realizzato la sua prima commedia, Pitza e datteri, che ha suscitato l’interesse di molti Paesi europei e non, forse a riprova dell’urgenza di trattare temi delicati quali l’integrazione. Nel 2022 esce il suo ultimo documentario Kurdbun. Essere curdo.